Qualcosa di misterioso lega il Bianco candido della neve e il Nero di ciò che è nascosto.
Esserne consapevoli è sempre meglio che non esserlo.
G iovedì 9 gennaio 2020, ore 10.46. «È quando mi si è fermata la vita». Quel mattino lo chef Giancarlo Morelli è stato ritrovato sulla Boè, a Corvara, «accartocciato sulla transenna a fondo pista, sanguinante, con una frattura esposta alla gamba sinistra, il casco divelto, le prime tre vertebre del collo rotte». Lui non si ricorda niente. «Mi manca un pezzettino di me stesso: non ricordo la caduta né la discesa precedente. So solo che quello, per me, è un falsopiano facile, perché è dove mio padre mi portava a sciare da bambino».
Bergamasco, classe 1959, due locali molto noti a Milano (il «Bulk» e il «Ristorante Morelli»), una stella al «Pomiroeu» di Seregno (Monza) persa nel dicembre 2019 — «Mi sono sentito senza vestiti quel giorno, ma adesso ho capito che chi ti premia sono gli amici, la famiglia, non i giudici che ti danno o tolgono medaglie» — Morelli è considerato un virtuoso dai colleghi, vista la formazione classica in Francia e la stima che per lui nutre un luminare come Ferran Adrià. Il cuoco catalano gli mandava i ragazzi per imparare a cucinare «el mejor arroz del mundo», il miglior risotto del mondo. Per tutti «Gianca» è un amicone, un buono. «Ma dietro l’aspetto tranquillo — racconta — ho sempre agito d’istinto e cercato esperienze al limite, dai viaggi alle auto. Ho vissuto ogni singolo minuto. Il giorno prima dell’incidente ero arrivato in Val Badia alle 23 dopo una trasferta all’isola di Canouan, nei Caraibi. Avevo appuntamento alle 8 con il maestro Claudio Tiezza, uno dei più bravi istruttori d’Italia. Abbiamo fatto un paio d’ore di discese: io sono esperto, avrei voluto fare lo sciatore. A un certo punto gli ho chiesto di deviare verso la Boè per l’affetto che nutro verso quella pista. Devo essere svenuto prima di cadere perché ho sbattuto a peso morto. Ricordo il vociare dei soccorritori: uno, della Val Camonica, mi parlava di polenta per tenermi sveglio. Poi l’elicottero, il dolore nonostante la morfina».
In Val Badia
«Ero sulla Boè, dove andavo da bimbo. Ora ho 6 chiodi nel collo e 5 tra ginocchio e piede»
All’ospedale di Bolzano lo operano per nove ore: «Oggi ho sei chiodi di titanio nel collo e cinque tra il ginocchio e il piede. Per un millimetro non è uscito il midollo, altrimenti adesso sarei paraplegico, oppure morto». Un miracolo? «Vengo da una famiglia contadina clericale, sono pieno di zie suore e zii preti, ma non sono praticante. Credo nell’uomo più che nei miracoli. E il dottor Broger e il suo team hanno protetto la mia vita come se fosse la cosa più importante che avevano da fare. Anche alla clinica Bonvicini, dove ho trascorso i quattro mesi di riabilitazione, sono stato trattato come se fuori il Covid non esistesse». Già, la pandemia. «L’ho vissuta marginalmente. Certo, l’isolamento totale è stato una prova di forza, soprattutto in quelle condizioni. Non camminavo, non parlavo, per sei settimane ho visto doppio: il cervello doveva rimettersi in asse. Ma i medici e gli infermieri, i miei due figli, la loro mamma Alessandra, le mie socie, i ragazzi della brigata si sono inventati di tutto per coinvolgermi. Facevamo tre webinar a settimana, dal vino ai formaggi. Ora sto meglio, però continuo la psicoterapia: la cosa più dura è allontanare dalla testa l’odore della fine della vita. Un misto tra un pezzo di carne tolto dal sottovuoto e il mercurio cromo. Quello che mi è successo lo prendo come una lezione. Mi è servito per capire che le cose che contano sono poche: la serenità interiore, il rapporto con le persone, essere utile a qualcuno. Ho allontanato le stupidaggini, mi sento liberato. Mi sveglio contento, prima era tutto scontato. Gli sci? Per rispetto di chi mi ha salvato non li ho rimessi. Ma forse, un giorno…».
(Fonte Corriere della Sera)