Dire – come fa lucidamente Ezio Mauro oggi su Repubblica – che ogni atto “preventivo” contro il Covid (e, aggiungerei, contro qualsiasi malattia in generale) è ad un tempo un atto tanto a valenza individuale che collettiva significa ricordare, in prosa, le “poetiche” parole della nostra Costituzione. Secondo il cui art.32 la Repubblica – ovvero la sintesi delle Istituzioni e di ciascuno di Noi – tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività.
(dall’articolo di pag.29):
Poiché non sappiamo ancora quanto dura l’immunizzazione attraverso il vaccino, se vogliamo sradicare il Covid e non solo guadagnare tempo dobbiamo raggiungere con il rimedio vaccinale il 70 per cento della popolazione, per ottenere l’immunità di gregge e mandare a vuoto definitivamente la marcia dell’infezione. Vaccinarsi, senza costrizione di legge, è una scelta personale dell’individuo, che cerca tutela e libertà: vaccinare 42 milioni di cittadini è una campagna di massa, la più gigantesca nella storia d’Italia, a tutela dell’intera popolazione minacciata. Il Paese intero si prende cura di se stesso, con una scelta di autocoscienza collettiva che non ha precedenti. Il vaccino è dunque anche un atto politico, in difesa del benessere comune, come politico è l’attacco del virus, che contagiando l’individuo infetta la società. È stupefacente come sia il male a rivelarci la nostra dipendenza dagli altri e la nostra responsabilità nei loro confronti. Nulla di ciò che facciamo per difenderci è sufficiente se non ci facciamo carico contemporaneamente della difesa altrui: non solo dei nostri familiari e degli amici, come d’abitudine, ma di persone che incontriamo occasionalmente e che potremmo involontariamente esporre, contagiare, mettere in pericolo, trasformandole in anelli di quella esponenziale catena infettiva che nelle due ondate sembrava stritolarci. L’insidia della pandemia sta nel trasformare tutti in potenziali vittime e possibili untori, costringendoci ad aver paura gli uni degli altri, e insediando qui il maleficio che sostituisce il vuoto alla società, proponendo il nulla come rimedio supremo.La soluzione va dunque cercata proprio negli “altri” e non solo in noi, riparandoli, salvaguardandoli, addirittura custodendoli come forma di autotutela anche se non sono il nostro “prossimo” ma comuni esseri umani, perché come dice Camus «ci dobbiamo persuadere che non c’è isola nella peste».Come chiamare questa scoperta del legame sociale che sopravvive nella disperazione, anzi diventa il bandolo di un nuovo ordine difensivo, di qualsiasi speranza? Siamo prima della compassione cristiana, in anticipo sulla solidarietà politica: è semplicemente la condivisione della condizione umana radicale, denudata ed esposta al contagio, insieme con la coscienza improvvisa del limite all’onnipotenza del progresso che attraverso la scienza e la medicina credevamo ci avesse immunizzato dai flagelli primordiali, e con il nuovo senso universale di vulnerabilità che attraversa il pianeta davanti a una minaccia globale, capace di universalizzare le paure e le angosce. Ciò che è attaccato è l’umano, nient’altro. E dalla pressione del male riemerge spontaneamente un vincolo che dovremmo riconoscere esattamente come umano, e proprio per questo in grado di spazzar via tutte le separazioni identitarie artificiali costruite nell’ideologia, perché viene prima, prevale sulle differenze, e dura nel tempo. L’ossessione genetic a con cui il Covid attraverso l’infezione ripropone lo stesso metodo a qualsiasi latitudine, moltiplica e replica in risposta le medesime emozioni ovunque nel mondo, generalizza le identiche misure di difesa e le stesse strategie di contrattacco. Il virus ci rende uniformi, anche se noi siamo disuguali, e ci sottopone per la prima volta a un’esperienza unificata, una sfida condivisa, un esercizio di sopravvivenza comune. Solo la morte si sottrae a questa prova collettiva. È vero che si muore sempre da soli: ma nella pandemia la morte senza commiato è talmente al singolare da diventare pura scomparsa, spogliandosi con il rito e la liturgia anche dei suoi effetti sociali, come se non ci fosse un percorso di vita da ricordare: riducendosi a mero fatto biologico, si banalizza in una semplice fine, quasi a negare la società e la rete di relazioni che la compone, ridotta in cenere. Tutto il resto è vissuto insieme, nello stesso momento e nello stesso modo – proprio mentre siamo distanziati e separati – in un esperimento di compartecipazione estrema che non ha uguali. Al di là delle nostre stesse intenzioni e delle nostre capacità, questa condivisione eccezionale crea naturalmente un perimetro sociale obbligatorio: crea cioè una comunità, che nasce dal bisogno e dall’affanno, dal sentimento comune della paura, dalla ricerca della stessa via d’uscita, come capita solo nei momenti ultimi, quando è in gioco il destino collettivo. Questo soffrire e sperare insieme genera una lettura comune dell’emergenza e il bisogno conseguente di riconoscere la legittimità del potere pubblico, cui tocca la potestà simbolica di decifrare la minaccia del male e compilare il calendario politico della difesa e della rinascita: così in un Paese disgregato si costruisce l’insieme, come quando bisognava difendere la città da un assalto. Raramente siamo stati comunità come in questa fase: e non per nostra scelta, ma perché come ha scritto qui Massimo Recalcati, la salvezza o è collettiva o è impossibile. Ora tocca alla politica sfruttare questo investimento civile spontaneo in uno sforzo comune, trasformandolo in capitale sociale, invece di dissiparlo nelle divisioni. E tocca a noi scegliere liberamente il vaccino, e decidere così se dopo la pandemia vogliamo conservare questo senso di comunità creata dal virus o preferiamo consegnarci nuovamente al contagio ideologico dell’egoismo italiano.
(Fonte: La Repubblica)