Semplicità e magia… Suggerisco di rispolverare, in abbinamento, anche le Bucoliche di Virgilio…
«Amavo immergermi nel dialetto e nell’orto», racconta Niccolò Reverdini nel suo romanzo di formazione in forma di memoir (Anche l’usignolo. Vita di città, di bosco e di campagna, Mondadori). Chiamarlo romanzo di formazione in forma di memoir non sarebbe esatto se non si precisasse che il racconto della propria esperienza nel passaggio dalla città alla campagna è anche un appassionato saggio sui metodi dell’agricoltura biologica, sul recupero di un bosco millenario ai bordi di Milano, sulla coltivazione delle patate e sui nemici che le insidiano, sulla trasformazione di una cascina in centro di ristoro, sulle opportunità offerte dalle politiche dell’Unione Europea. Un saggio di antropologia contadina restituita anche attraverso la precisione del linguaggio gergale e dialettale.
Reverdini fonda il suo viaggio dentro il mondo agricolo su una solida cultura filologica, essendo allievo della scuola pavese di Dante Isella e di Cesare Bozzetti, oltre che pronipote (e studioso) dello scrittore scapigliato Carlo Dossi, l’autore delle Note azzurre. Il suo libro è dunque il risultato di questa doppia anima di letterato e di naturalista impegnato anche sul piano civile a salvaguardia dell’ambiente. Perché la vicenda autobiografica che racconta è accompagnata e sostenuta dal ricorso continuo alle pagine dei grandi autori che hanno descritto o cantato il paesaggio lombardo e in genere l’amore per la campagna. L’elenco è lungo: Esiodo, Tibullo, Cicerone, Virgilio, Columella, Bonvesin de la Riva, Dante, Petrarca, Foscolo, Maggi, Pascoli, Manzoni, Cattaneo, Gadda…
Si parte dagli anni Settanta, gli anni di piombo in cui il ragazzo, cresciuto in città con negli occhi le immagini del sangue versato per le strade, inforca la sua bicicletta per raggiungere da via Brera il Bosco di Riazzolo, nella zona Sud del Milanese, quasi alle soglie della valle del Ticino. Lì il nonno materno Franco, proprietario di terreni e di cascine, gli trasmette le prime emozioni prendendolo per mano per condurlo nel folto, «lungo i laghetti, sopra le rive d’edera e pervinca». Morto il nonno, una volta cresciuto il giovane Niccolò deciderà di tornare al Bosco, «riarso dagli studi» amati che gli si rivelano «labirintici e accaniti» e «spinto dagli urti della vita», per avviare un lavoro di bonifica di quel luogo antico (la corte, la casa del fattore, la stalla, il fienile, la scuderia, gli estesi campi) altrimenti avviato verso un destino di decadenza. Vincere il declino della Forestina è anche, per Niccolò, vincere il male di vivere che lo assedia e a un certo punto anche una malattia feroce (che viene raccontata con estremo pudore), dunque la sua storia è la storia di una battaglia durissima, di una determinazione con qualche caduta e infine di una vittoria.
L’idea che emerge dal racconto di Reverdini è che non si vince (e probabilmente non si perde) mai da soli. Si tratti di affrontare la peronospora o la diffidenza dei paesani locali, l’ostilità dei cacciatori o le avversità meteorologiche, le difficoltà tecniche o gli ostacoli economici, quel che conta è avere amici fedeli e forti compagni di strada. Tra le qualità di Niccolò c’è il talento nel formare attorno a sé piccole comunità solidali, nel trovare i collaboratori giusti, nello stringere sodalizi, accordi e patti. Se non ci fossero stati il Lino, il Gino, il Togn, il vecchio Carlone, detto el Medàia (per le molte onorificenze di guerra), con la sua schiera di anziani cislianesi, il ritorno alla corte per riportarvi nuova vita, nuove vite, nuove voci, nuovi e vecchi ortaggi coltivando con metodo bio-filologico sarebbe fallito.
Sintonie
Tra le qualità dell’autore c’è il talento nel trovare
i collaboratori giusti
e nello stringere accordi
C’è la disponibilità a imparare il mestiere dai vecchi e c’è poi, una volta acquisite le conoscenze e le pratiche, la disponibilità a insegnare ai giovani, magari ai migranti che arrivano dall’Africa e che hanno voglia, diversamente dai coetanei italiani, di piegare umilmente la schiena per usare la zappa. Ciò che si trasmette di generazione in generazione non è soltanto il sapere tecnico-scientifico, ma anche l’accoglienza del viandante (la cascina è un porto di mare, ci dice Reverdini), la necessità dell’incontro e (fondamentale) la consapevolezza serena di quel «giro continuo di vita e di morte» sempre presente tra le pagine. Drammatiche e piene di pietà sono le scene in cui si racconta la morte del Gino o quelle in cui il volpino Venerdì, dilaniato dai cacciatori, solleva per l’ultima volta il capo verso il suo padrone.
Anche per questa impronta di quasi religiosa confraternita e di condivisione l’io narrante cede non di rado il passo al noi, specie nelle fasi in cui si racconta la costruzione comune del progetto. Lo stile di Reverdini nel raccontare questa opera di agricoltura biologica e di biodiversità è una scrittura che si direbbe altrettanto biologica e biodiversificata (spinta anche verso i risvolti lievemente comici che risentono della eredità dossiana, per esempio quando viene descritta l’allegra invasione domenicale degli ospiti, le famiglie, i bambini, le mamme e i papà): in un equilibrio cauto tra la cronistoria, le necessarie descrizioni tecniche sul mondo agricolo, il referto concreto sul lavoro, la precisione definitoria di fauna e flora, le altrettanto necessarie suggestioni lirico-emotive, le aperture paesistiche, i rapidi ritratti umani.
Un equilibrio ben calibrato attraverso una sintassi metamorfica, un’alternanza sapiente di espressioni dialettali e di intarsi colti, un lessico ricchissimo, qua e là desueto e spesso imprevedibile soprattutto nell’aggettivazione, sempre tesa a restituire il senso di una partecipazione e di una cura verso il mondo naturale e verso il linguaggio che lo racconta: «Dovevamo pertanto soccorrere l’orto, irrigando al bisogno ogni coltura. Non già le patate, graziate dai piovaschi di maggio, ma le più esigenti cipolle o gli avidi pomodori e l’assetata compagnia dietro la stalla».
(Corriere della Sera)