E’ il gennaio 1987 quando Raffaella Carrà, su suggerimento di Franco Zeffirelli, fa intervenire in diretta telefonica Gustavo Adolfo Rol che, in un appassionato discorso, invita i giovani a lottare per gli “Stati Uniti del Mondo”.
Ancora una volta, aveva “previsto” tutto.
L’ultima volta che si tentò una stima a metà dello scorso decennio, Alphabet — holding di controllo di Google — pagava in Irlanda una tassa dello 0,2% su tutti gli utili registrati in Europa, Medio Oriente e Africa. Apple ha vinto una causa in Corte di giustizia della Ue che le permette di mantenere un accordo con Dublino tale da pagare lo 0,005% degli utili registrati in tutto il continente. E meno di un mese fa la Corte Ue ha ribaltato una decisione di Bruxelles che proibiva un trattamento speciale in Lussemburgo dei profitti di Amazon in Europa. Intanto in cinque anni questi tre gruppi hanno visto il loro valore di mercato crescere di 3.700 miliardi di dollari, anche perché pagano aliquote fiscali effettive più basse di un operaio.
Per la prima volta, ne stanno discutendo alla Lancaster House di Londra i ministri delle Finanze e dell’Economia del G7. Negli anni di Donald Trump alla Casa Bianca, come in quelli di Barack Obama, gli Stati Uniti non avevano mai accettato che il Gruppo dei sette si chiedesse come tassare le Big Tech. Ieri invece il ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire è uscito dalla prima giornata di confronto e ha detto: «Siamo a un millimetro da un accordo storico».
Perché qualcosa è cambiato, in questi anni. Italia, Francia, Gran Bretagna e Spagna hanno iniziato a applicare una tassa sul 3% dei fatturati realizzati dalle Big Tech americane sul loro territorio, per prevenire la fuga dei profitti verso i paradisi fiscali. La scelta dei governi europei può innescare una guerra commerciale dato che, senza un accordo, da quest’anno per ritorsione gli Stati Uniti imporranno dazi del 25% sulle grandi case di moda e del lusso italiane e degli altri Paesi coinvolti. La sabbia nella clessidra sta scorrendo.
C’è però una seconda novità, anche più profonda: con la pandemia le Big Tech, i loro manager e gli azionisti sono divenuti il simbolo di una diseguaglianza nella società ormai ritenuta intollerabile. Negli Stati Uniti come in Europa. E anche i governi dei Paesi più forti iniziano a temere che i grandi gruppi tecnologici diventino così liquidi e potenti da mettere in discussione le prerogative degli Stati. Facebook vuole persino lanciare una propria moneta.
È anche per questo che, da quando è alla Casa Bianca, Joe Biden ha cambiato linea. L’ultima offerta del presidente americano agli europei è una «global minimum tax» del 15% sulle cento imprese con i maggiori utili, quale che sia la loro nazionalità. Un’azienda dovrebbe pagare nel resto del mondo tasse almeno per il 15% dei profitti, se trasferisce questi ultimi in un paradiso fiscale che preleva di meno. Naturalmente il diavolo è nei dettagli, perché va stabilito come andrebbe ripartito gettito: quanto al Paese dove l’impresa ha la sua casa madre (quasi sempre, gli Stati Uniti), quanto nei Paesi dove si realizzano le vendite (spesso, in Europa) e quanto dove avviene la produzione materiale per esempio di uno smartphone (di solito, nell’Asia emergente).
Che il G7 di Londra già oggi sciolga questi nodi è quasi impossibile. Probabilmente riuscirà solo a stabilire il principio di una «global minimum tax», senza indicare di quanto. Ne riparleranno i capi di Stato e di governo del G7 tra una settimana sulla costa inglese, quindi un ruolo delicato spetterà all’Italia e al ministro dell’Economia Daniele Franco: come presidente del G20, al vertice finanziario di Venezia fra cinque settimane, il governo di Roma dovrà cercare un accordo anche con i Paesi emergenti.
Pochi mesi fa un negoziato del genere sembrava impensabile, ora c’è. Ma la strada resta lunga. «È un passo positivo — commenta Andrea Silvestri, professore di fiscalità internazionale alla Luiss Business School —. Ma se l’aliquota globale fosse al 15%, alcune imprese avrebbero sempre un incentivo a trasferire i profitti verso i paradisi fiscali. In molti Paesi occidentali si paga comunque di più».
(Corriere della Sera)