Io allora avevo 10 anni. E continuo ancora a chiedermi perché è accaduto.
La parola magica continua ad essere “prevenzione”; ma non sembra che in 40 anni si sia imparato molto…
Il 10 giugno 1981 è la data in cui un bambino, Alfredo Rampi, tornando a casa finisce dentro un pozzo della zona di Vermicino, vicino a Roma. È un pozzo artesiano incustodito, rimasto aperto, scavato senza chiedere permessi, con un pezzo di lamiera a proteggerlo. Sono le sette di sera, ma è estate, c’è luce. Da quel momento comincia una lunghissima tragedia. In realtà, anche se è terribile dirlo, doveva essere uno di quei fatti di cronaca strazianti e che finiscono sui giornali, in cui ci si dice, leggendoli o ascoltandoli alla radio o in tv, che è intollerabile, terribile — come è potuto succedere. Ma si partecipa da lontano, e il dolore vero è quello della famiglia, delle persone intorno. Un dolore invisibile agli occhi di chi è solo informato del fatto tragico.Soltanto che il giorno dopo, Alfredo è ancora lì sotto; i telegiornali cominciano a raccontare la vicenda perché le difficoltà di tirare fuori il bambino dal pozzo sono tante, e le ore passano. Il tg3 apre una finestra per un po’ dal luogo dove continuano a non riuscire a tirare fuori il bambino. Gli italiani cominciano a provare ansia, empatia. Insomma, sul posto è arrivata la televisione. Ed è questo che succede.Il 12 giugno 1981 io e il mio compagno di scuola Salvatore non siamo andati a scuola perché stiamo preparando una di quelle interrogazioni che si fanno alla fine dell’anno, dopo aver evitato di studiare tutto l’anno. Accendiamo la tv in una pausa, c’è questa storia di Vermicino, e il telegiornale decide di continuare a seguire la diretta. Quindi lasciamo la tv accesa, un po’ studiamo, un po’ guardiamo. E poi pian piano smettiamo di studiare e guardiamo soltanto. Cosa guardiamo? Niente. Delle immagini di persone intorno al pozzo che parlano, aspettano, movimenti, vigili del fuoco, volontari, folla intorno. Guardiamo la madre di Alfredo lì accanto al pozzo, disperata e sudata, che continua a gesticolare e a parlare con persone che stanno cercando di tirare Alfredino fuori dal pozzo. Poiché assistiamo a tutto questo, non si tratta più di una notizia. Dai cronisti a noi a casa si comincia a dire Alfredino; si stampa nel cervello, per sempre, il vestito della mamma. Man mano che il tempo passa, il bambino sprofonda sempre più giù — ma non racconterò oggi, a quarant’anni di distanza, quell’orrore non visibile e raccontato minuto dopo minuto per ore e ore — alla fine si conteranno diciotto ore consecutive di diretta tv, quasi tutte a reti unificare del primo e secondo canale, con punte di più di 28 milioni di spettatori a guardare e aspettare.
Quello che non sappiamo ancora, io e il mio amico Salvatore, e i milioni di persone che come noi non riescono più a staccarsi dallo schermo, sono due cose: che finirà male, e che quella data è anche il momento in cui la televisione cambia per sempre e diventa il luogo dove le cose accadono.
Il motivo per cui la televisione cambia, inconsapevolmente, e si ferma su questa storia, è esattamente il contrario di come finirà: sono tutti sicuri che finirà bene, che ce la faranno — è questo il motivo per cui si decide di fare la diretta: gli italiani sono coinvolti emotivamente, sono catturati emotivamente, questo fatto di cronaca terribile si trasforma in un racconto e chi decide di farlo è sicuro che avrà un finale che riscatterà tutta questa sofferenza.
Arrivano esperti, arriverà lo speleologo ed è la prima volta che ci accorgeremo che esistono gli speleologi. Si calerà nel pozzo, si sentiranno voci strazianti. Anche la voce di Alfredino riusciremo a sentire, perché vengono calati microfoni, con la convinzione testarda che andrà a finire bene.E poi, come tutti ricordano, arriva anche il presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Resterà lì fermo con gli altri, per ore, accanto alla mamma del bambino, non vuole andarsene più. E Pertini è la sintesi perfetta di ciò che sta accadendo, di ciò che sta cambiando: rappresenta il coinvolgimento emotivo degli italiani, come nessuno finora. È stato rabbioso pochi mesi prima per il terremoto dell’Irpinia, avrà un entusiasmo fanciullesco un anno dopo per la vittoria ai mondiali — e qui sintetizza l’apprensione e il dolore di tutti. Rappresenta l’attesa.
E poi, pian piano (succede tutto pianissimo, è questo che è insopportabile e inedito) ci si rende conto che le cose non stanno andando bene, che non andranno a finire bene. Ma è troppo tardi, per tutti, per tutti noi, per ritirarci, per allontanare le telecamere, per spegnere la tv. Lo strazio dei genitori di Alfredo Rampi non è più possibile preservarlo, anzi è diventato il nostro. Durante la notte, la mattina dopo ancora.
Finora, non avevamo assistito ai fatti come si svolgevano, non avevamo assistito in diretta a qualcosa che non sapevamo come sarebbe andata a finire. Per fare l’esempio più indimenticabile di quegli anni, non avevamo assistito alle ricerche (vane) del corpo di Moro nel lago della Duchessa: non avevamo assistito all’apertura del bagagliaio della Renault rossa (sono immagini riproposte dopo). E lo facciamo assistendo alla terribile morte di un bambino dopo ore in fondo a un pozzo. Scopriamo che la televisione può stare lì dove accadono le cose, anche se le cose diventano tragiche e dolorose. E da lì non torneremo più indietro. Verranno coniati slogan come “la tv del dolore” quando questa proseguirà a mostrare, quando si faranno programmi che mostreranno.
Le cose, da Vermicino in poi, appunto, accadranno in tv. Fino a quelle ore non era successo. Il racconto giornalistico ci aveva accompagnato per mano così come faceva la televisione fin dagli anni della sua comparsa: con intento pedagogico e spiegando perché e come le cose erano successe. E invece da quei giorni è finita per sempre la tv pedagogica, quella che aveva cominciato a insegnare l’italiano, aveva diffuso i classici della letteratura attraverso gli sceneggiati, aveva indirizzato il racconto dell’informazione, bene o male, verso una sopportabilità dei telespettatori che, come si diceva: all’ora del telegiornale sono a tavola per la cena. Nessuno ci aveva mai lasciati soli davanti alla tv ad assistere a una tragedia senza accompagnarci, fidandosi della nostra emotivi tà, o forse abbandonandola. In quelle ore è successo spinti dall’emozione e dalle sollecitazioni che arrivavano da tutto il Paese. Ma come molti cambiamenti, è stato inconsapevole, involontario. E voleva raccontare tutt’altro — intendeva dare sollievo ai cittadini che avevano tralasciato ogni cosa per stare davanti alla tv. Cioè, molto più inconsapevolmente di quanto si creda, aveva trasformato un fatto di cronaca tragico in una opera di finzione, più precisamente che confondesse la realtà della cronaca con il racconto della finzione. Con l’intento di ricucire le ferite con un lieto fine commosso.
Tutti lì davanti, ad aspettare, cercare di capire, sperare, illudersi, nel lieto fine. E poi disilludersi.
Tutti quelli che c’erano ricordano lo speleologo magrissimo e infangato che risale su senza respiro, tramortito, e disperato di essere stato vicinissimo al bambino, e di non avercela fatta. A quel punto, tramortiti tutti noi, abbiamo perso le speranze. E abbiamo capito la verità dolorosa che ci aspettava: eravamo tutti lo speleologo, eravamo usciti infangati e sconfitti; ma non ce lo aspettavamo, non lo avevamo chiesto; e, in realtà, non avremmo voluto esserlo.