La “virtus” e la “pudicitia” sono Valori della grande Roma repubblicana. Con i Pretoriani dell’Impero, siamo già all’inizio della fine.
Singolare parlarne adesso che si avvicinano le Elezioni capitoline…
La prima coorte pretoria fu formata (in epoca repubblicana, due secoli prima della loro istituzione come corpo) da Publio Cornelio Scipione Africano all’epoca della guerra contro Annibale. Si trattava di una sorta di guardia personale del comandante in capo. Guardia che alloggiava nelle immediate vicinanze della sua tenda e aveva come missione precipua proteggere la sua persona alla vigilia e nel corso della battaglia. Più tardi le coorti divennero qualcosa di più importante. In età imperiale, diventarono «un corpo militare d’élite», racconta Marco Rocco nel libro I pretoriani. Soldati e cospiratori nel cuore di Roma in uscita giovedì 13 maggio da Salerno editrice. Istituito approssimativamente tra il 27 e il 25 a.C., tale corpo prese consistenza all’inizio del nuovo millennio. Poi, fino al II secolo, il suo impiego restò, come ai tempi di Scipione l’Africano, «quasi del tutto circoscritto a compiti di scorta dell’imperatore o di membri della sua famiglia investiti di incarichi di comando» sul campo di battaglia. I pretoriani avevano per questo uno «statuto particolarmente privilegiato» che derivava dallo stretto legame che li univa all’imperatore del quale costituivano «una sorta di esercito personale».
Assai potenti furono i loro tribuni militari che capeggiavano le coorti. Ancor più potente il prefetto del pretorio, il più celebre dei quali, Seiano, fu in carica ai tempi di Tiberio. Ma li ritroveremo, con ruoli talvolta poco chiari, nell’assassinio di Caligola (41 d. C.), Galba (69), Commodo (192), Caracalla (217), dopo la cui morte fu acclamato imperatore il prefetto del pretorio Macrino. Per quel che riguarda la congiura in cui restò ucciso Domiziano (96), Rocco nota come «all’apparenza i pretoriani non ebbero alcun ruolo» e anzi successivamente si diedero da fare per punire i cospiratori. Ma, osserva lo storico, «sorprende che nessuno di loro sia intervenuto in difesa dell’imperatore». I pretoriani ebbero invece un ruolo documentato nell’uccisione di Eliogabalo (222).
Nei momenti di transizione, i pretoriani controbilanciarono (e più volte contrastarono con successo) il peso esercitato dal senato e dalle legioni. Questo fece sì che, tramite loro, anche strati sociali estranei all’aristocrazia senatoria italica avessero accesso al potere. Allo stesso modo potevano trovare un ruolo i «provinciali». Fino alla riforma di Settimio Severo (193), le coorti pretorie esprimevano «ceti provenienti per lo più dall’Italia», alternativi all’aristocrazia senatoria. Con il passare del tempo inoltre molti pretoriani divennero a Roma i rappresentanti delle loro città di origine, di cui «curavano gli interessi» o di altre comunità «diventandone patroni e portavoce presso le altrimenti irraggiungibili orecchie dell’imperatore o degli altri funzionari di Stato». Sicché i loro meriti venivano onorati, lontano dalla capitale, da concittadini riconoscenti con solenni iscrizioni, affisse in luoghi pubblici e spesso associate a statue che davano lustro al pretoriano a cui erano dedicate.
Ci fu poi qualcosa di più. Il coinvolgimento dei pretoriani nelle vicende delle successioni — «in un mondo caratterizzato dalla supremazia di un’élite sociale e culturale tradizionalmente chiusa» — costituì «una progressiva forma di apertura nella partecipazione all’esperienza politica» riservata a settori del popolo fin lì esclusi. Un’apertura a suo modo codificata, seppur, precisa lo studioso, «non certo nei termini usuali per chi è abituato a vivere in una moderna democrazia liberale». Facciamo un esempio. Prima di Augusto, Roma non aveva mai conosciuto la presenza stabile al proprio interno di forze dell’ordine organizzate. Con la comparsa dei pretoriani sulla scena pubblica, gli abitanti della capitale si trovarono sempre più spesso a contatto con questo nuovo genere di «agenti». Capitava nel corso degli spettacoli, dei giochi. E anche in occasione di festività religiose, raduni, parate, processi contro personaggi noti unanimemente considerati potentissimi. I romani videro i pretoriani «coinvolti nelle operazioni di contenimento ed estinzione di alcuni dei più gravi incendi». Impararono «a temerli». E, con il tempo, «a fronteggiarli, nei non infrequenti tumulti popolari» che scoppiavano nella capitale e in altre città della penisola.
Nel corso degli anni, scrive Rocco, il termine «pretoriani» assunse però «una valenza decisamente squalificante», designando in senso lato qualunque gruppo di «sgherri armati» al servizio di uomini «potenti, crudeli e tirannici». Ma era davvero così? No, è probabile che questa visione esprimesse «un punto di vista parziale», «la proiezione di un giudizio tipico delle fonti letterarie antiche, composte in genere da autori di estrazione senatoria, ostili per educazione e sentimenti all’elemento militare». Comunque andò avanti in questo modo finché il corpo fu sciolto da Costantino dopo la battaglia di Ponte Milvo contro Massenzio, dalla parte del quale erano schierati pretoriani che ressero all’urto nemico assai meglio dei cavalieri (312).
Progressivamente il concetto di protezione dell’imperatore si era nel frattempo ampliato. Sulla base di un’ «interpretazione estensiva» della lesa maestà — configurata come reato da Augusto già nella «lex Iulia maiestatis» dell’8 a.C. — i pretoriani si dedicarono alla sorveglianza (nei fatti, alla persecuzione) di chiunque costituisse una minaccia, vero o presunta, per la persona dell’imperatore. È probabile che fossero pretoriani gli armati che uccisero, nel 14 d. C., Agrippa Postumo, nipote e figlio adottivo di Augusto. Agrippa Postumo all’epoca era confinato nell’isola di Pianosa ma, nonostante il suo isolamento, si temeva potesse riservare qualche sorpresa al momento della successione all’imperatore appena defunto. Probabile mandante di quell’assassinio era stato Tiberio, al quale è in ogni caso riconducibile la prima azione esplicita di queste milizie. Nel 16, un gruppo di pretoriani fu mandato a minacciare il nobile Marco Scribonio Libone Druso, sospettato — peraltro sulla base di indizi inconsistenti — di aver ordito una cospirazione contro l’imperatore. Spaventato da quel che gli sarebbe potuto capitare, Druso si suicidò. Un altro Druso, figlio di Germanico, fu imprigionato sul Palatino dal prefetto Seiano. Al centurione Attio fu assegnato l’incarico di sorvegliarlo, vessarlo e annotare ogni sua parola in un quaderno di cui su esplicito ordine di Tiberio, dopo la sua morte, fu data lettura in Senato. Furono poi quasi certamente dei pretoriani che, su disposizione dell’imperatore, uccisero (o costrinsero al suicidio) il nipote del sovrano Tiberio Gemello. Nel 39 fu probabilmente un pretoriano che eliminò Marco Emilio Lepido, sospettato di cospirazione ai danni di Caligola. E furono pretoriani, qualche anno dopo, quelli che si diedero carico di assassinare lo stesso Caligola, la moglie e la figlia. Una bimba di nemmeno due anni, fa osservare l’autore a rimarcare la crudeltà del delitto, «sfracellata contro una parete».
Il successore di Caligola, Claudio, usò poi i pretoriani per far fuori, uno a uno, trentacinque senatori e trecento cavalieri. In qualche caso spinto dalla moglie Messalina come, ad esempio, contro Decimo Valerio Asiatico, già coinvolto nell’uccisione di Caligola. Messalina, invaghitasi dei suoi giardini, convinse Claudio che Valerio Asiatico stesse tramando contro di lui. Il prefetto Crispino costrinse Valerio Asiatico al suicidio e ottenne da Claudio una ricompensa davvero ragguardevole (un milione e mezzo di sesterzi). Messalina potè avere i giardini dello scomparso, ma poco tempo dopo fu, anche lei, sospettata di cospirazione e uccisa. Sempre da pretoriani.
Fu poi un tribuno, Pollione Giulio, che, su disposizione di Nerone, avvelenò Britannico, figlio di Claudio. Ma lo stesso Nerone rinunciò a servirsi dei pretoriani per uccidere sua madre, Agrippina. Temeva — in ciò consigliato da Burro — la lealtà che gli appartenenti alle coorti conservavano nei confronti di suo nonno, Germanico, padre di Agrippina. Quando poi Tigellino prese il posto di Burro, l’aria cambiò. Tigellino si servì dei pretoriani per eliminare il senatore Rubellio Plauto e per sventare la «congiura pisoniana» del 65. Particolare macabro di quell’operazione fu quel che i pretoriani fecero al console Marco Giulio Vestino Attico, ostile sì a Nerone, ma non coinvolto nella cospirazione: il console fu lasciato morire dissanguato al cospetto degli ospiti che aveva in casa, i quali furono costretti ad assistere, terrorizzati, alla sua agonia.
Si può affermare che con i pretoriani nasca qualcosa di simile alla polizia politica dei regimi totalitari del Novecento. Rocco descrive in modo accurato i modi con cui i pretoriani acquisiscono un potere sempre crescente. Un ruolo di primo piano è svolto da quelli che vengono definiti speculatores. L’appellativo (derivato dal verbo speculari che sta per «esplorare, sorvegliare, spiare») «designava», scrive lo storico, «sia soldati incaricati della protezione fisica ravvicinata dell’imperatore, sia agenti imperiali tratti dalle legioni o dalle coorti pretorie e utilizzati non solo per fungere da canale di comunicazione riservata fra l’imperatore e i governatori di provincia, ma anche per assolvere a missioni di spionaggio e di intelligence». Nei casi in cui era considerata a rischio la pubblica sicurezza, «gli speculatores non proteggevano l’imperatore in modo diretto, ma agivano per lo più nell’ombra, come informatori, infiltrati, sicari».
Questo uso dei pretoriani iniziò già ai tempi dei Giulio-Claudi, epoca in cui si calcola che gli speculatores fossero circa trecento. Gli storici di quel periodo non offrono dettagli specifici sul loro operato. Ma, ad esempio, tra gli informatori del prefetto Seiano ne viene ricordato uno assai particolare «incaricato di annotare ogni mossa, ogni incontro pubblico e privato di Agrippina Maggiore e di suo figlio Nerone». Nel 69 l’imperatore Otone infiltrò pretoriani «in borghese» nelle famiglie aristocratiche per verificare se parteggiavano o meno per il suo rivale Vitellio. All’inizio del II secolo il filosofo stoico Epitteto, in una delle Diatribe, ricordava come a Roma certi soldati «fossero soliti mescolarsi alla folla in abiti civili per fungere da agenti provocatori, muovendo aperti rilievi all’imperatore e poi arrestando gli incauti che avevano condiviso le loro critiche». Un secolo dopo, Cassio Dione (storico e senatore) lamentava il fatto che i militi, usati come spie da Caracalla, rispondessero delle loro azioni soltanto a lui, «il che li dotava di un’impunità di fatto» che li rendeva «veri e propri persecutori del Senato».
Alla fine del secondo secolo, Commodo assegnò ai pretoriani l’incarico di giustiziare il prefetto del pretorio Tigidio Perenne assieme a tutta la sua famiglia. Caracalla fece eliminare dai pretoriani suo fratello Geta e intendeva procedere allo stesso modo contro l’ex prefetto dell’urbe, Lucio Fabio Cilone, al quale manifestava pubblicamente grande affetto per il fatto che aveva cercato di rappacificarlo proprio con Geta. I soldati mandati a prenderlo, maltrattarono Cilone, lo spogliarono e gli sfigurarono il volto. La folla iniziò a rumoreggiare indignata; a quel punto l’imperatore si presentò in strada per «salvare» Cilone. E teatralmente fece mettere a morte i pretoriani che stavano eseguendo i suoi ordini. Passò qualche tempo e toccò a Caracalla di essere assassinato. In quell’occasione (217) l’acclamazione imperiale andò al prefetto del pretorio Macrino. La cosa si ripeterà altre tre volte nel terzo secolo con l’acclamazione imperiale di altri prefetti del pretorio: Filippo l’Arabo (244), Floriano (276), Caro (282). I pretoriani erano all’apice della loro potenza e del loro prestigio. Filippo l’Arabo avrebbe voluto celebrare il millenario di Roma, ma proprio in quel momento i Goti passarono il Danubio, alcuni usurpatori furono acclamati dalle truppe e il suo regno che pure era durato oltre cinque anni finì nel sangue (prese il suo posto il senatore Messio Decio). Floriano regnò soltanto ottantotto giorni e fu assassinato da una spia. Marco Aurelio Caro restò sul trono per un anno (dal 282 al 283), ottenne un importante vittoria contro i Persiani e morì di morte misteriosa, forse assassinato dal prefetto del pretorio Arrio Apro. Altri trent’anni e i pretoriani sarebbero stati sciolti. Per ripresentarsi (sotto altre spoglie) sulla scena pubblica diciassette secoli dopo.
(Paolo Mieli, Corriere della Sera)