Hemingway, come Pavese e molti altri, si tolse la vita.
Fa male scrivere (peraltro, autentici capolavori) o si tratta di una qualche presa di coscienza?
Al semplicismo continuo a preferire la semplificazione.
Da scrittore, non devi giudicare. Devi cercare di capire ». Così scriveva Ernest Hemingway nel 1935, in un compendio da lui dedicato agli autori emergenti sulla rivista Esquire . Mentre si avvicina il sessantesimo dalla morte (si sparò un colpo di fucile in testa il 2 luglio 1961 a Ketchum, Idaho) si può leggere questa massima a rovescio. Da lettori, infatti, ancor prima di giudicare abbiamo ancora molto da scoprire sul romanziere, sul giornalista, sul cacciatore, sul seduttore, sulla celebrità letteraria, insomma sulle tante maschere che lo scrittore americano indossò nella sua avventurosa esistenza. Ci aiuta nell’impresa (o la complica, più probabilmente) la serie di novità che ci accompagnano verso questo anniversario, illuminando aspetti finora trascurati della vita e dell’opera del premio Nobel. In America, innanzitutto, dove la primavera letteraria si è aperta con la messa in onda, poche settimane fa sul network Pbs, del fluviale documentario di Kenn Burns e Lynn Novick (6 ore di montato, 3 episodi) intitolato semplicemente Hemingway , con l’ambizione non solo di mostrarne la pervasiva influenza sulla letteratura americana contemporanea, ma di indagare l’uomo oltre il mito. Operazione sommamente ambiziosa, vista la caratura bigger than life del personaggio. L’impresa è tale che, cosa piuttosto rara per un’operazione televisiva, la Pbs ha dato vita a nove “conversazioni su Hemingway” registrate in video – si spazia dal classico “guerra e giornalismo” all’irrinunciabile “gender and identity” – che scandagliano i temi del docufilm coinvolgendo giornalisti, istituzioni letterarie, autrici importanti come Joyce Carol Oates e Rachel Kushner.
A precedere il tormentone tv, mesi fa, la pubblicazione da parte del New Yorker , di un inedito importante: il racconto intitolato Pursuit as Happyness (La ricerca come felicità) ritrovato da Séan Hemingway, nipote di Ernest, durante le sue ricerche presso la Ernest Hemingway Collection del John F. Kennedy Library and Museum di Boston. Ora questo racconto inedito, definito dallo stesso Séan Hemingway «una gemma tra i materiali non ancora pubblicati » e ritenuto dalla critica una sorta di abbozzo de Il vecchio e il mare varca l’Oceano. È stato infatti incluso nella nuova edizione Oscar Mondadori de Il vecchio e il mare insieme ad alcuni articoli sulla pesca; Robinson lo anticipa sul numero in edicola da domani insieme a Repubblica . La nuova edizione non solo include l’inedito ma presenta, dopo quella storica di Fernanda Pivano, una nuova versione in italiano affidata a Silvia Pareschi (in questo periodo, per valorizzare l’opera di chi traduce, Mondadori lancia anche un’iniziativa sui social che si chiama “Nota del traduttore”). Pareschi, che afferma di essersi avvicinata al doppio confronto, con l’opera di Hemingway e con Pivano, con «timore reverenziale », spiega cosa ha significato per lei – già traduttrice di Jonathan Franzen e del suo cult Le correzioni , nonché di Don DeLillo e Cormac Mc-Carthy – lavorare su un classico novecentesco: «La traduzione della Pivano è del 1952, lo stesso anno in cui il libro è uscito. Non solo la lingua da allora è cambiata, ma è cambiato l’approccio alla traduzione, che oggi tende a essere più fedele, più accurata rispetto al testo di partenza. Questo anche perché gli strumenti per fare ricerca sul testo e sciogliere i dubbi sono molto più facili da reperire. Per Pivano, e per chi traduceva in quella generazione, penso a Vittorini o a Pavese, era fondamentale portare in Italia quella cultura e quegli autori e farlo in un bell’italiano. Erano scrittori e facevano un lavoro sì di traduzione, ma anche di riscrittura personale».
Tradurre oggi è un compito diverso, ma il confronto è inevitabile: «Pivano ha riprodotto molto bene lo stile di Hemingway, la questione della paratassi, e da questo non mi sono discostata. Ho lavorato invece di più sui termini, sugli oggetti. Quando si traduce è fondamentale riuscire a “vedere” ciò che si descrive: in questo sono stata aiutata da molte fonti iconografiche, incluso il film tratto dal romanzo nel 1958». Nei quasi settant’anni dalla prima edizione, gli studi critici si sono moltiplicati: «Ho letto la critica, e biografie di Hemingway, mi sono confrontata con studiosi come Susan Beegle » spiega ancora Pareschi, ritornando poi al tema della lingua: «L’italiano della nuova traduzione de Il vecchio e il mare non può essere quello di settant’anni fa. Ma non può nemmeno essere troppo contemporaneo. Se un personaggio impreca, ad esempio, visto che le parolacce invecchiano molto rapidamente, dovremo mantenere un tipo di imprecazione che sia realistico rispetto al periodo». Il ritrovamento de La ricerca come felicità è stata una sorpresa: «Avevo praticamente finito, letto, riletto e spedito l’ultima bozza della traduzione quando mi è arrivata la notizia che avrei lavorato anche sull’inedito e sugli articoli sulla pesca». Metterli a confronto è stato ritrovarsi di fronte a tre variazioni di una sinfonia: «C’è Il vecchio e il mare che è per così dire il romanzo perfetto; poi ci sono i pezzi sulla pesca, che sono più grezzi. Poi c’è l’inedito, una scoperta fantastica. Il tema è quello del romanzo, ma scritto in maniera ancora diversa».
Tradurre Hemingway, conclude Pareschi, «non è una danza, come talvolta accade con altri autori. Piuttosto è una lotta, piena di sentimenti ambivalenti. C’è sempre una tensione che lui trasmette». Tensione, lotta, insomma la letteratura come campo di forze non addomesticate né necessariamente concordi. Una nota da tenere a mente, di questi tempi.