A Sanremo, il primo Festival (primaverile) fu di Geopolitica.
E “vinse” il Medioriente.
La conferenza che si tiene a Sanremo (18-26 aprile 1920) si colloca in una terra di mezzo, sospesa tra i primi accordi siglati a Versailles e i lasciti delicati dell’equilibrio del primo dopoguerra. Un secondo tempo per dirimere questioni spinose che non avevano trovato spazio nell’impianto originario della pace del 1919 o che non erano state affrontate per timore di lacerare l’intesa tra le potenze vincitrici. Nel Castello Devachan si riunisce il Consiglio supremo di guerra alleato, il presidente del consiglio Francesco Nitti fa gli onori di casa. Le delegazioni sono ridotte all’essenziale, i vertici degli esecutivi, per favorire uno scambio rapido di valutazioni e indicazioni operative. Il clima nella città ligure è condizionato dai tempi nuovi e dalle aspirazioni di chi arriva in rappresentanza di mondi che si affacciano sul mare nostrum legati in modo indissolubile alla fine dei grandi imperi. Ne scrive lo stesso Nitti nelle sue memorie: «la numerosissima rappresentanza dei greci guidata ancora una volta da Venizelos, i rappresentanti ebrei pochi ma molto abili, gli armeni che avevano grande fiducia nel successo delle loro aspirazioni e grande facondia nel manifestarle. Meno insistenti e più attendisti nonché presenti a giusto titolo gli ottomani e il nuovo re di Siria, Faysal (F.S. Nitti, Meditazioni dall’esilio , Napoli, 1947)». Tutti in trepidante attesa sugli esiti del confronto tra i vincitori. Il Presidente del consiglio aveva preso il posto di Orlando nel giugno 1919, dopo aver svolto il ruolo di ministro del tesoro nell’ultimo anno del conflitto. Con ostinazione si muove per rilanciare un ruolo internazionale dell’Italia, pur in presenza di un duplice condizionamento negativo: la crisi sociale e conflittuale che attraversa la penisola nell’incerto quadro post bellico e il peso dell’occupazione di Fiume, il pericoloso monopolio di «una nostra piccola questione adriatica» sull’insieme degli equilibri mediterranei. La sua critica è rivolta ai predecessori incapaci di uscire dalle ristrette compatibilità legate agli assetti del confine orientale. Un’analisi impietosa che è alla base dell’iniziativa di Sanremo e del potenziale rilancio italiano in chiave mediterranea: «Durante la Conferenza di Parigi i rappresentanti dell’Italia si disinteressarono di quasi tutti i problemi che riguardavano la pace dell’Europa, la situazione dei popoli vinti, la distribuzione delle materie prime, l’ordinamento dei nuovi Stati e il loro rapporto col vincitore per concentrare lo sforzo su Fiume, cioè su un punto in cui l’azione dell’Italia aveva una fondamentale debolezza» (F.S. Nitti, L’Europa senza pace , Firenze 2014). Questioni di fondo connesse alle debolezze della pace, alle sue conseguenze economiche, alla presenza di un carattere punitivo anti tedesco incapace di costruire un quadro di riferimento stabile. Le premesse dell’appuntamento di Sanremo richiamano un più generale disegno di presenze nello spazio vuoto lasciato dal tramonto degli imperi. I risultati possono essere riassunti in due piani, uno rivolto al passato, l’altro al futuro. Il primo risponde alla richiesta della Germania di raddoppiare il proprio esercito, passare dai centomila uomini previsti e consentiti (Versailles) ai duecentomila utilizzabili per sedare i primi disordini nella Ruhr. L’ipotesi viene respinta e spedita al mittente con un’apertura franco britannica a una futura conferenza comune per valutare le richieste inoltrate da Berlino. Il secondo piano è rivolto al futuro, nelle linee guida che porteranno al controverso trattato di Sèvres con l’impero ottomano e alla politica dei mandati e delle partizioni in Medioriente. Una scelta che va ben al di là delle giornate di aprile di oltre un secolo fa: l’articolo 22 della Carta della Società delle Nazioni prevede il mandato di tipo A. Una sorta di lasciapassare, una via di mezzo tra la colonizzazione e l’indipendenza, se ne discuterà molto negli anni e nei decenni a venire. La Siria e il Libano vengono così affidati a un mandato francese, mentre la Mesopotamia (l’Iraq) e la Palestina completa (a est e a ovest del Giordano) finiscono sotto mandato inglese. Primi passi di un nuovo Medioriente che sono alla base delle presenze che segneranno la regione nella seconda metà del Novecento a partire dalle scelte dell’Onu dopo il 1945 (basti il richiamo alla controversa risoluzione 181 sulla partizione del mandato britannico). Uno strano destino per una Conferenza semi dimenticata (si fatica a trovarne traccia nelle sintesi di storia del Novecento), mentre viene celebrata in altri contesti.
Nelle parole dell’Ambasciatore israeliano Dror Eydar (di stanza a Roma dal settembre 2019) l’emozione per le celebrazioni odierne: «la Conferenza del 1920 rappresenta un passaggio chiave per gli equilibri della regione; fissa per la prima volta nel diritto internazionale il principio della ricostruzione di un focolaio nazionale ebraico, l’embrione dello stato che vedrà la luce nel 1948». Un filo sottile di storia che passa dalla cittadina ligure: altrimenti non capiremmo le ragioni dell’inaugurazione, pochi giorni fa, di una piazza Sanremo nel centro di Netaya a nord di Tel Aviv.
(Fonte: La Repubblica)