Ambiente e Ambizione hanno la stessa radice: l’una in ottica “centrifuga” e l’altra in ottica “centripeta”.
L’importante resta non assolutizzare, cercando il giusto Equilibrio.
Napoleone trascorse a Sant’Elena sei anni, dal 17 ottobre 1815 — allorché fu lì relegato dagli inglesi — al 5 maggio 1821 quando morì, all’età di 51 anni. Lasciò un testamento in cui «perdonava» coloro che lo avevano «tradito», tra i quali Talleyrand, La Fayette e il fratello Luigi che — nel 1810 (quando era re di Olanda) — aveva litigato con lui per poi lasciare il trono e mettersi sotto la protezione austriaca. Successivamente le ceneri di Napoleone restarono nell’isoletta altri 19 anni, fino al 15 dicembre del 1840, quando furono portate in Francia con un cerimonia grandiosa. In quell’occasione, si distinse dal coro di giubilo lo scrittore François-René de Chateaubriand — gia ministro degli Esteri di Luigi XVIII tra il 1821 e il 1824 — che scrisse: «Privato del suo catafalco di rocce, Napoleone è venuto a seppellirsi nelle immondizie di Parigi».
Venticinque anni prima, a Londra si era supposto — come hanno ben illustrato Jean Tulard in Napoleone (Bompiani) e Luigi Mascilli Migliorini in Napoleone (Salerno) — che, deportando il grande corso in quel luogo sperduto, se ne sarebbe persa ogni traccia. In una lettera datata 21 luglio 1815 il primo ministro inglese Lord Liverpool informò il ministro degli Esteri Robert Stewart Castlereagh, marchese di Londonderry, della decisione di inviare Napoleone a Sant’Elena destinandolo in questo modo all’oblio definitivo. Su quella piccola isola, distante 1.900 chilometri dalla costa africana e tremila da quella brasiliana, scrisse il capo del governo di sua maestà, l’uomo che aveva fatto tremare l’intera Europa «sarebbe stato ben presto dimenticato». Si trattò di un clamoroso errore di valutazione, scrive Vittorio Criscuolo in Ei fu. La morte di Napoleone pubblicato per i tipi del Mulino. Secondo Criscuolo «presentandosi al mondo con l’aureola del martire», l’imperatore — sconfitto a Waterloo il 18 giugno 1815 — «vinse l’ultima delle sue battaglie». E «pose consapevolmente il primo fondamento della leggenda». Qualche settimana dopo la sua morte persino sui muri di Londra apparvero manifesti che invitavano tutti coloro che ne avevano ammirato «il talento e il coraggio nelle avversità» a «prendere il lutto per la morte prematura di Napoleone». E i giornali governativi diedero grande risalto ai risultati dell’autopsia, che scagionavano l’Inghilterra dal sospetto (assai diffuso) di averne favorito il decesso.
Nell’estate del 1815, Bonaparte, lasciata Parigi, era riparato sulla costa atlantica, a Rochefort, e di lì sull’isola di Aix, dalla quale contava di poter partire alla volta degli Stati Uniti. Ma — come è stato spiegato da Andrew Roberts in Napoleone il grande (Utet) — gli occhi dell’Europa vincitrice erano estremamente vigili. E fu in quel frangente che Napoleone commise un errore: confidò che l’Inghilterra potesse essere indulgente nei suoi confronti. Si rivolse al principe reggente, futuro re Giorgio IV, manifestando la propria intenzione di cercare riparo in Inghilterra «come Temistocle (il generale ateniese che nel 480 a.C. sconfisse i Persiani a Salamina ma poi, ostracizzato dai suoi concittadini, si vide costretto a fuggire e fu accolto da Artaserse, re dei suoi ex nemici, ndr)». Allo stesso modo il Bonaparte manifestò l’intenzione di sistemarsi «al focolare del popolo britannico», mettendosi «sotto la protezione delle sue leggi». Il 15 luglio salì sul «Bellerophon» ancora pieno di speranze. Ma l’Inghilterra non diede segni di clemenza: dal «Bellerophon» Napoleone fu trasferito sul vascello «Northumberland», dal quale, dopo un viaggio di oltre due mesi, il 17 ottobre 1815 sarebbe sbarcato a Sant’Elena. Dove, scrive Criscuolo, giocò la sua ultima partita. Quella per evitare di essere rimosso dalla memoria del mondo intero. E stavolta vinse.
Sul «Northumberland» avevano viaggiato 26 persone tra le quali il ciambellano consigliere di stato Emmanuel de Las Cases e quattro donne. Las Cases — che parlava inglese e divenne perciò prezioso per Napoleone, che lo usò come interprete — intuì fin dall’inizio che condividere l’esilio con quel grande personaggio avrebbe rappresentato «un’occasione preziosa sul piano storico e letterario». Prese appunti su ogni loro conversazione. Quando il 31 dicembre del 1816 fu espulso dall’isola per Città del Capo (dove sarebbe stato imprigionato per sei mesi), il governatore Hudson Lowe gli sequestrò tutti i documenti. Carte che però gli furono restituite dopo il 5 maggio 1821 e consentirono a Las Cases di scrivere, nel 1823, il lettissimo Memoriale di Sant’Elena, tradotto in molte lingue. Un’ipotesi presa in considerazione da Criscuolo è che Las Cases si sia fatto mandar via in accordo con Napoleone per trasmettere messaggi riservati ai suoi familiari e ai seguaci superstiti. Ma si tratta di una congettura non suffragata da evidenze.
Prese appunti anche un altro accompagnatore illustre di Napoleone, il gran maresciallo Henri-Gatien Bertrand, che ne trasse un diario privato, i Cahiers de Sainte-Hélène. I Cahiers non erano destinati alla pubblicazione — l’imperatore si intratteneva in particolari intimi su Desirée Clary che aveva poi dato in moglie al generale Bernadotte, su Joséphine de Beauharnais che lui stesso aveva sposato e si lasciava andare perfino nei confronti della moglie di Bertrand definita «une catin», una poco di buono — e furono dati alle stampe anni dopo la morte del loro estensore. Un diario tenne anche il generale Gaspard Gourgaud, Journal de Sainte-Hélène, in cui si insinuava che l’imperatore avesse una relazione con Albine, la moglie di un altro generale presente sull’isola, Charles de Montholon. Anzi che fosse addirittura padre della seconda figlia di madame de Montholon, nata nel corso della permanenza a Sant’Elena. La moglie di Montholon fu davvero assai irrequieta, ma Gourgaud in realtà era terribilmente geloso di Montholon, giungendo al punto di sfidarlo a duello. Nei Cahiers di Bertrand è riportato che Napoleone volesse bene a Montholon e non sopportasse Gourgaud considerandolo come una persona morbosa che ogni giorno avrebbe voluto «violentarlo sessualmente». Diviso «da contrasti, gelosie, meschine rivalità», scrive Criscuolo, «il gruppo di uomini e di donne che accompagnarono Napoleone nel suo esilio forzato fu per lui costante motivo di preoccupazione e di afflizione».
Howe fece espellere da Sant’Elena il corso Santini con altri tre domestici. Santini, racconta Criscuolo, portò con sé, cucita fra la stoffa e la fodera del suo vestito, la «protesta di Napoleone contro le vessazioni che gli erano inflitte». Questo «appello alla nazione inglese» giunse nelle mani di Henry Richard Fox lord Holland che, nel marzo 1817, in un discorso in Parlamento definì «ingeneroso l’atteggiamento assunto dal governo nei confronti del nemico sconfitto». Nell’ottobre 1817 il medico irlandese Barry Edward O’Meara diagnosticò al Bonaparte un’epatite. Il governatore Lowe ritenne si trattasse di una diagnosi fasulla. Ne nacque un conflitto che portò nel luglio 1818 al licenziamento del medico. Il quale, per aiutare Napoleone, portò in Europa, nascoste nella suola di una scarpa, due lettere dell’illustre recluso: una per la madre, l’altra per la moglie Maria Luisa. Un anno dopo la morte dell’imperatore, O’Meara pubblicò a Londra Napoleone in esilio o una voce da Sant’Elena, che commosse un vasto pubblico.
Ma torniamo a tre anni prima. Nel 1819 Napoleone (che nel frattempo aveva rifiutato le visite di altri dottori) stette peggio e accettò di sottoporsi alle cure di John Stokoë, il quale confermò la diagnosi di O’Meara. Lowe, a quel punto, prese di mira anche Stokoë, lo fece processare e destituire dalla marina, talché il malcapitato fu costretto a cercar riparo presso il fratello di Napoleone, Giuseppe, negli Stati Uniti.
Quando Napoleone morì, Alessandro Manzoni scrisse la celeberrima poesia il cui primo verso da il titolo al libro di Criscuolo (Ei fu). Goethe — che aveva incontrato Napoleone a Erfurt nel 1808 e da lui era stato decorato con la Legion d’Onore — tradusse in tedesco i versi manzoniani. Il poeta tedesco Heinrich Heine puntò l’indice contro gli inglesi: «Britannia! A te appartiene il mare», scrisse. «Eppure il mare non ha acqua sufficiente per lavarti dall’onta che, morendo, il grande estinto ti ha lasciato in eredità». Byron manifestò tutta la sua commozione (ma lui — che nel 1814 aveva scritto un’Ode a Napoleone Bonaparte e l’anno successivo L’addio di Napoleone — già nel maggio del 1815 alla Camera dei Lord aveva votato contro la messa fuori legge dell’imperatore dei francesi). Puškin compose un’ode in cui individuò in Napoleone l’uomo della Rivoluzione che aveva diffuso in Europa gli ideali dell’89.
Questa fu la vera, ultima, definitiva vittoria napoleonica. Con grande lucidità politica, scrive Criscuolo, il Bonaparte nella solitudine dell’esilio di Sant’Elena, fu capace di prevedere i moti «che le forze liberali e nazionali avrebbero messo in atto contro la politica reazionaria della Santa Alleanza e volle presentarsi, in quanto incarnazione dei princìpi del 1789, come principale punto di riferimento per quanti lottavano per la libertà e l’indipendenza dei popoli». Una geniale intuizione. Secondo Las Cases, avrebbe dichiarato che, se non fosse stato sconfitto in Russia, sarebbe stato lui a «creare nel continente un vero e giusto equilibrio, garante della pace e delle aspirazioni dei popoli». «Il sistema europeo si trovava fondato, non si trattava che di organizzarlo», così le sue parole riferite nel Memoriale; «soddisfatto su questi grandi punti e tranquillo dappertutto — diceva — avrei avuto anch’io il mio “congresso” e la mia “santa alleanza”». Poi così proseguiva: «Sono idee che mi sono state rubate; in quella riunione di tutti i sovrani, avremmo trattato i nostri interessi in famiglia e ci saremmo limitati ad amministrare i nostri popoli».
Del tutto particolari furono i cambiamenti di idee di Victor Hugo, Edgar Quinet e del russo Michail Jurevic Lermontov. Hugo era stato decisamente ostile a Napoleone e al momento della sua morte ne aveva parlato, in una poesia, come di un «flagello vivente». la cui «empia gloria» si era macchiata del crimine dell’assassinio del duca di Enghien. Ma negli anni divenne poi un «grande cantore della leggenda napoleonica». Quinet fece un percorso inverso: progressivamente si rese conto di essersi «definitivamente allontanato dalla religione bonapartista dei suoi primi anni che era rimasta invece viva nei suoi amici». «Malauguratamente», scrisse Quinet, « mi accorsi che io non seguivo più la strada del popolo… avevo abbandonato il terreno della leggenda, per la prima volta mi separavo dallo spirito delle masse». Lermontov, poco prima di morire in duello (1841), sferrò un duro atto di accusa contro il popolo francese, giudicato «senza testa» in quanto aveva tradito Napoleone e ora, mosso da un tardivo rimorso, lo accoglieva con una festa di cui il poeta russo coglieva tutta la vanità.
E il mondo politico inglese? Il governatore Lowe si aspettava di essere premiato per la sua «missione». Invece quando rientrò in Inghilterra «fu accolto nella più completa indifferenza». Wellington lo difese pubblicamente, ma si seppe che in privato lo definiva «a stupid man». Secondo Criscuolo, agli esponenti del governo inglese e soprattutto al ministro Bathurst, «il vero responsabile» delle condizioni stabilite per la prigionia del grande corso, «fece molto comodo che tutte le critiche si concentrassero sulla figura del governatore». Il giudizio più spietato su Lowe fu quello pronunciato da Walter Scott nel libro Life of Napoleon Bonaparte (1827). Si avverò così quel che gli aveva predetto lo stesso Napoleone nel 1816, guardandolo fisso negli occhi: «Fra pochi anni il vostro lord Castlereagh, il vostro lord Bathurst, tutti gli altri, voi stesso che mi parlate, sarete sepolti nella polvere dell’oblio; o se ancora si ricorderanno i vostri nomi, sarà soltanto per le indegnità contro di me».
Per tutto l’Ottocento Sant’Elena restò una sorta di prigione. Nel 1890 fu relegato nell’isola il re zulu Dinuzulu, che lì rimase per sette anni. Il tempo, fa notare Criscuolo, per occidentalizzarsi nei costumi e ricevere anche il battesimo. In seguito, nel corso della seconda guerra anglo-boera (1899-1902), furono deportati a Sant’Elena molti coloni sudafricani, quasi tutti di ascendenza olandese, e l’isola si trasformò in un campo di concentramento. Poi tornò ad essere una sperduta meta per pochi raffinati turisti.
(Paolo Mieli, Corriere della Sera, pag.36)