Giulio Bacosi

Il tempo è parente del caos

Il tempo è funzione dello spazio.
Quanto ci metto per spostarmi da A a B?
Se fossi ovunque, “ubiquo”, il tempo non avrebbe alcun senso.

La filosofia nasce dalla meraviglia, afferma Aristotele nella Metafisica, riprendendo le parole di Socrate nel Teeteto: il desiderio di conoscere sorge dallo stupore davanti a cose ritenute ovvie, a fenomeni dati per scontati e di cui siamo certi di possedere la spiegazione. Lo stupore di fronte alla scoperta che la Terra ruota intorno al Sole, per esempio, quando non avvertiamo alcun movimento, e anzi osserviamo il Sole, ogni giorno, percorrere un arco nel cielo. O quello che ci dà la scoperta che il tempo, una delle nozioni apparentemente più affidabili e indubitabili, sia molto diverso da quello che il senso comune ci porta a ritenere.

Se Isaac Newton, nello «scolio» in apertura dei Principia (1687), non ritiene neppure di definire il tempo, in quanto nozione «notissima a tutti» (al pari dello spazio, del luogo e del moto), Albert Einstein, due secoli e mezzo dopo, toglie definitivamente il tempo dal piedistallo su cui il grande scienziato inglese lo aveva posto. Nei decenni successivi, la fisica ha costantemente «degradato» il tempo: da ente assoluto e incorruttibile a mera illusione.

Il Novecento ci ha lasciato in eredità due grandi teorie: la relatività generale, a partire dalla quale si sono sviluppate la cosmologia e l’astrofisica; e la fisica dei quanti, base della fisica atomica, dello studio delle particelle elementari e di tantissimo altro. Entrambe si sono dimostrate estremamente feconde, con ricadute tecnologiche che fanno ormai parte della vita quotidiana di ognuno di noi. Entrambe, nei rispettivi ambiti (l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo), funzionano molto bene.

Eppure queste due teorie, almeno nella loro forma attuale, sono incompatibili fra loro e ci consegnano immagini contraddittorie del mondo: la relatività descrive uno spazio-tempo continuo, mentre per la meccanica quantistica il mondo è uno spazio piatto popolato da quanti di energia.

Non è la prima volta che la fisica si trova di fronte a teorie individualmente coronate da grande successo, ma apparentemente in conflitto fra loro. Questo tuttavia non ha mai costituito un ostacolo: la storia della scienza ci insegna anzi come lo sforzo di sintesi fra visioni inconciliabili abbia portato a compiere alcuni dei passi in avanti più significativi nella nostra comprensione del mondo. La teoria della gravitazione universale di Newton è nata dall’unificazione delle parabole che Galileo Galilei aveva mostrato descrivere il moto dei proiettili e delle forme ellittiche che Giovanni Keplero aveva riconosciuto nelle orbite dei pianeti; analogamente, le equazioni di James Maxwell hanno «sintetizzato» le teorie elettrica e magnetica di Carl Friedrich Gauss e Michael Faraday, e nel 1915 Einstein ha proposto la relatività per risolvere un conflitto a prima vista irriducibile tra elettromagnetismo e meccanica. Ogni conflitto di questo tipo, dunque, deve essere visto come una straordinaria opportunità.

Nel tentativo di risolvere la tensione tra relatività e teoria dei quanti, i fisici stanno provando a percorrere strade diverse. Una di queste — la gravità quantistica «a loop» (di cui Carlo Rovelli è uno dei fondatori) — porta a una modifica profonda della struttura della realtà e a un ripensamento radicale del ruolo del tempo. Se lo spazio, in base alla teoria einsteiniana, non è più quel contenitore inerte degli eventi che Newton aveva pensato, ma un qualcosa di dinamico, simile a un campo elettromagnetico, per la meccanica quantistica ogni campo di questo tipo è costituito da quanti, e ha dunque una struttura granulare.

Interrogativi

Siamo di fronte al problema di trovare una sintesi

tra la relatività generale

e la fisica dei quanti

Integrando i due punti di vista, la teoria dei «loop» prevede che lo spazio non sia un continuo, ma abbia una struttura a grani: sia cioè formato da minutissimi «atomi di spazio» inanellati fra loro, a formare una complessa rete di relazioni. I quanti di spazio non sono in alcun luogo: sono essi stessi lo spazio. Il mondo è una rete di relazioni, prima che un insieme di oggetti.

Con l’idea di spazio infinitamente divisibile entro cui si svolgono i fenomeni, però, scompare anche l’idea di tempo continuo, che scorre inesorabilmente e indipendentemente dai fenomeni stessi. Le equazioni che descrivono gli «atomi di spazio», infatti, non contengono più la variabile «tempo».

Non si tratta di un ritorno a Parmenide, il filosofo che negava la possibilità stessa del cambiamento in un mondo in cui l’Essere è sempre uguale a sé stesso. Anzi: il cambiamento è ubiquo e caratterizza ogni punto dello spazio, anche se i processi elementari non possono essere ordinati in una comune successione di istanti. Come nei quadri di Pollock, in cui i singoli colori non obbediscono a un ordine, ma sembrano seguire ognuno un ritmo proprio.

Lo scorrere del tempo è dunque interno al mondo, non ne è lo sfondo inalterabile: nasce dalle relazioni fra gli eventi quantistici che costituiscono il mondo e, con esso, il tempo. La realtà non è come appare: lo spazio non è il luogo in cui avvengono i fenomeni, né il tempo il filo lungo il quale essi si dispongono. Il tempo imperturbabile che noi percepiamo è simile alla superficie liscia di un lago che cela, al di sotto, un turbinio caotico di complesse interazioni molecolari.

Nel suo nuovo libro Tempo. Il sogno di uccidere Chrónos (Feltrinelli), Guido Tonelli ci guida nei tentativi che l’uomo, attraverso i secoli, ha compiuto per afferrare, comprendere e dominare Chrónos: il tempo della scienza, innanzi tutto, ma anche il tempo dell’uomo, attraverso le sue molteplici declinazioni. In un viaggio che ci spinge ad abbandonare ogni certezza e ad arrenderci alla meraviglia di scoprire come anche il concetto più familiare sfugga a ogni tentativo di inquadramento: un viaggio in cui mito, arte, filosofia e letteratura soccorrono la scienza nel tentativo di cogliere qualcosa di per sé inafferrabile, e che tuttavia segna la nostra intera esistenza.

È l’ammonimento di Giorgione, in Le tre età dell’uomo (1501), in cui lo stesso personaggio è raffigurato nelle sembianze di giovane, uomo adulto e vecchio. Sulla sinistra, l’uomo anziano volge lo sguardo all’osservatore e sembra dirgli: «Tu, che osservi da lontano: pensi forse che la cosa non ti riguardi?».

(Fonte: Corriere della Sera)

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