Inginocchiarsi è un gesto potente.
Da sempre esprime umiltà e devozione. L’eterogenesi dei fini lo ha condotto ad essere violenza.
E protesta.
«Se la vittima fosse stata bianca nessuno avrebbe parlato di processo difficile»: Benjamin Crump, l’avvocato superstar coinvolto in tutte le maggiori cause che riguardano i diritti civili degli afroamericani, lo ripete nel corso della conferenza stampa organizzata prima di entrare nell’aula dove ieri è iniziata la causa contro Derek Chauvin. Il poliziotto bianco, che lo scorso 25 maggio premette il suo ginocchio sul collo del nero George Floyd per 8 minuti e 46 secondi, fino a soffocarlo. Nonostante i passanti gli urlassero di smetterla, mentre riprendevano col cellulare lo strazio del poveretto col volto schiacciato sul marciapiede, a ripetere “I can’t breathe”, non respiro, 27 volte prima di spirare. Sì, la frase poi diventata lo slogan del movimento Black Lives Matter e della rivolta scatenata da quella morte la scorsa estate. «Fu deliberato e intenzionale», accusa Crump sottolineando l’assurda lunghezza di quell’«atto di tortura » inginocchiandosi, con gli altri legali, i fratelli di George e il reverendo- attivista Al Sharpton, appunto per 8 minuti e 46 secondi davanti al Palazzo di Giustizia della contea di Hannepin, in una Minneapolis nuovamente blindata. «Oggi inizia un processo storico, un referendum su quanto lontano questa nazione intende spingersi nella ricerca di eguaglianza e giustizia per tutti», tuona ancora il legale già capace di far ottenere ai Floyd il risarcimento record, da 27 milioni di dollari: «Il mondo ci guarda».
Perfino Joe Biden segue «con attenzione » il processo che determinerà il futuro delle relazioni razziali in America e ieri ha incollato al televisore l’intero paese: a seguire la diretta di Court tv, canale specializzato in processi, unico ammesso a seguire il dibattimento al via dopo tre settimane trascorse a radunare una giuria etnicamente bilanciata (nove bianchi, quattro neri e due multirazziali, sei sono uomini e nove donne) e soprattutto neutrale, formata, cioè, da persone non influenzate dal video pur rimbalzato in tutto il mondo. E mostrato di nuovo ieri dall’accusa in tutta la sua brutalità, rivelando, tra l’altro, che Chauvin bloccò il collo del disgraziato più a lungo: 9 minuti e 29 secondi. Mollando Floyd, ormai cadavere, solo ai barellieri dell’ambulanza. Anche per questo il giudice Peter Cahill ha contestato all’imputato pure l’omicidio di terzo grado, aver cioè «provocato la morte non volontaria, ma con malizia», portando il rischio di pena a 40 anni di carcere. Assegnando, allo stesso tempo, però un punto pure alla difesa permettendogli di ammettere come prova il video di un fermo di Floyd del 2019, dove lo si vede ingerire certa droga che aveva in tasca per non farla trovare.
«Non vogliamo processare la polizia ma un solo agente che abusò della sua forza», ha detto nella requisitoria d’apertura il procuratore della difesa, Jerry Blackwell: «Non sappiamo se Floyd spacciò consapevolmente il biglietto da 20 dollari falsi, ma si trattava comunque di un crimine minore. Per dimostrarlo chiameremo agenti specializzati in tecniche di difesa. E pure il capo della Polizia di Minneapolis, Medaria Arradondo, esplicito nel parlare di «condotta non consona agli standard ». Insieme a testimoni oculari e otto medici specialisti, concordi nel riconoscere come causa della morte la manovra di soffocamento.
Una tesi contrastata dalla difesa, come dice fin da subito Eric Nelson, avvocato dell’agente, pronto a chiamare i due impiegati della tabaccheria dove vennero spacciati i 20 dollari falsi affinché testimonino che Floyd «sembrava sotto l’effetto di droghe».
Per la difesa, insomma, causa della morte non fu la presa del poliziotto, ma gli effetti delle sostanze assunte su un fisico compromesso da altre patologie. Con buona pace del referto del medico legale dove si parla di asfissia. «Chauvin merita di essere giudicato al di là di ogni ragionevole dubbio: con razionalità e senso pratico» insiste, separato dal suo cliente in abito grigio chiaro, da una parete di plexiglass. «Ha fatto solo ciò che era addestrato a fare. Senza motivazioni razziali o sociali. Dobbiamo mettere la politica da parte. L’agente sotto processo fece il suo dovere». Due versioni opposte e dunque sì, un processo “difficile”: perché specchio di un Paese ferito e diviso.
(Fonte: La Repubblica)