I “Migliori” dimostrano sempre sul campo di essere tali.
Contro e oltre ogni pregiudizio.
L’ intervista interrompe Paolo Fresu mentre sta scrivendo certi suoi pensieri ispirati a Platone e il tempo. Accenna: «In fondo, il tempo è eterno. Peccato che non lo siamo anche noi». Se coi concerti fermi per pandemia uno si aspetta di trovarlo che suona la tromba tutto il giorno o lo immagina placidamente a riposo, dimentica che si è esibito tremila volte in cinque continenti; ha inciso oltre 450 dischi, 90 solo suoi, spesso corredati da testi che sono veri libretti; ha un’etichetta discografica; ha composto colonne sonore; insegna in master e seminari. Oltre che una stella del jazz, è uno stakanovista della musica e un uomo incapace di star fermo. Vive in tre città, Parigi, Bologna e nella natia sarda Berchidda. Il 10 febbraio, ha compiuto 60 anni. E scherza: «In pandemia, il tempo è dilatato e i compleanni valgono il doppio. È come aver compiuto 120 anni, anche se mi sento molto più giovane. Ho scoperto un tempo più lento e prezioso. Se non avessimo visto tante immagini strazianti e non avessimo tante preoccupazioni per il futuro, sarebbe stata una rivelazione interessante. Temevo la noia. All’improvviso mi sono trovato nel vuoto apparente e, soprattutto, senza viaggi, che sono per me il momento della massima creatività: su treni e aerei, sei in un luogo di nessuno e io lì penso, creo, organizzo. Ora, stando tanto a casa, ho dovuto reimpostare il pensiero e ci sono riuscito: ho prodotto comunque il mio festival in Sardegna, un cofanetto triplo, un concerto online per il compleanno. Prima, prendevo un volo Roma-New York e i miei collaboratori avevano paura, perché atterravo e avevo pensato un tour, avuto idee, scritto musica».
Lei compone in treno e in aereo?
«Lo faccio al Pc o appunto il pentagramma sulle riviste di bordo. La colonna sonora del film su Ilaria Alpi l’ho annotata su un Parigi-Olbia. Il brano sulla morte di Federico Fellini l’ho scritto su un Firenze-Bologna quando non c’era l’alta velocità».
Com’è che un figlio di pastori diventa un musicista jazz celeberrimo?
«Non mi piace raccontare la mia storia come quella di un eroe che esce dai canoni della normalità. La mia è la storia di un bimbo che amava la campagna e la terra e amava tanto la musica e, con passione e testardaggine, è riuscito a farne la sua ragione di vita. Non dovrebbe esserci nulla di anormale. Avevo una tromba in casa, vedevo passare la banda del paese e sognavo. Ricorderò per tutta la vita la prima processione in divisa blu e mostrine d’oro».
Ricordi della Berchidda della sua infanzia?
«Era una campagna tipica del Logudoro. Dietro c’è la Gallura, con le sue rocce di granito dalle forme fantastiche che erano i miei libri di pietra: ognuna era un viso o un animale con una storia che mi raccontavo mentre aiutavo mio padre con le pecore. Il tempo scorreva come in quel saggio di Platone del 360 a. C., con i riti della raccolta delle olive, della vendemmia, dell’uccisione del maiale e degli agnelli. A 15 anni, i ragazzi si ripetevano quanto erano sfortunati a vivere tagliati fuori da tutto. Io ero l’unico convinto che essere sardi fosse un segno di distinzione, che avevamo cose uniche, anche certi dolci, anche la bottarga e la nostra lingua: io ho parlato solo sardo. Ancora oggi, a volte, penso in sardo».
A che punto è il suo «Vocabulariu saldu-italianu in Logudoresu de ‘Elchiddha»?
«A 25 mila lemmi. È un dizionario emozionale, nato in omaggio a mio padre: aveva la terza elementare ma ha scritto poesie, piccoli romanzi naif e raccoglieva modi di dire, cognomi, bestemmie in dialetto. Li annotava sugli scontrini, nel quaderno delle vaccinazioni delle mucche e, se non aveva da scrivere, sulla terra, con un legnetto».
Grazie a lei, Berchidda, una volta all’anno, diventa l’ombelico del mondo del jazz.
«Per il “Time in Jazz”, c’è gente che arriva da tutti i Paesi e lì nascono collaborazioni, amori, c’è chi s’incontra e si sposa. Quando arriva uno da New York e vede questo paesino abbarbicato sulla collina e gli dicono “quello è il posto dove suonerai” ed è un posto che puoi circoscrivere con un dito, so che si sta chiedendo perché mai è venuto. Poi arriva e trova un laboratorio umano straordinario. Al bar vedi il pastore che parla col jazzista australiano, non si capisce in che lingua, forse quella della birra».
L’estate scorsa, è riuscito a fare il festival nonostante il Covid, mentre nella vicina Costa Smeralda impazzava il contagio.
«Abbiamo fatto 50 concerti nei boschi, sui laghi, nelle chiese e senza un contagio. Abbiamo dimostrato che i concerti si possono fare, all’aperto e al chiuso».
Ora, il «Time in Jazz» è rimasto vittima di un Click Day. Andrà avanti?
«Abbiamo perso 60mila euro di finanziamenti regionali per quattro secondi e non sarà questo a fermarci. Il tema, però, è che un festival con 33 anni di storia non può stare sulla stessa corsia di uno nato il giorno prima. Noi generiamo 3 milioni di euro di ricaduta sul territorio. Questo episodio dimostra quanto poco lo spettacolo sia considerato dalla politica. Neanche la pandemia ha fatto capire che, dietro un due per cento di famosi, ci sono migliaia di lavoratori preziosissimi e senza tutele».
Lei quando ha capito che avrebbe vissuto di musica?
«Appena mi diplomai perito elettrotecnico, mi fu offerto un posto alla Sip. Mi vestii bene, andai al colloquio. Li ascoltai e rifiutai. Non l’avevo deciso prima. In certi momenti, la scelta non può essere razionale. Non avevo niente, studiavo ancora al conservatorio. Papà disse solo: basta che non fai il pastore. Ma feci bene: subito dopo, fui chiamato per delle supplenze di musica alle medie e diventai autonomo».
Al conservatorio, era stato accolto come il promettente talento che era?
La svolta
Appena mi diplomai perito elettrotecnico mi fu offerto un posto alla Sip. Mi vestii bene, andai al colloquio. Li ascoltai e rifiutai. Mio padre disse: però non fare il pastore
«A Sassari, al primo tentativo, non fui ammesso: all’esame attitudinale mi dissero che non ero musicale. Non voglio farne un processo: la scuola la fanno gli insegnanti e in parte il sistema. Il professore, alla fine, mi mise tre in tromba e dovetti finire gli studi a Cagliari: erano cinque ore di treno, ma trovai un insegnante straordinario, che mi ha compreso».
Il jazz, tuttavia, era lontano e non oggetto di didattica.
«Lo scoprii attraverso un gruppo in cui suonavo. Il pianista era figlio di un dentista melomane, che aveva tanti dischi. Andai a seguire due seminari di “Siena Jazz”. Tornai e passai ore in cantina a provare gli accordi fotocopiati lì. Però, mi annoiavo a suonare da solo: venivo dalla banda. Poi, in un giorno di primavera, dentro una luce meravigliosa, mi viene una nota che aveva un significato totalmente nuovo. La mia vita è cambiata. È stato un momento luminoso. La tromba è diventata la mia voce».
Una volta ha detto «io canto con la tromba».
«È lo strumento del canto: il mezzo vibrante siamo noi. Io, per anni, ho ossessivamente passato il tempo a trovare il suono, perché canto significa melodia, melodia significa testo. Miles Davis e Louis Armstrong avevano grande senso della melodia».
Se pensa in sardo, suona anche in sardo?
«So che, alla fine di un concerto, arriva sempre uno che dice: si sentiva un pezzo di Sardegna. Forse è vero, non saprei. L’attore può interpretare altri da sé, il musicista, sul palco, è solo con se stesso».
Perché suona seduto, in precaria posizione fetale?
«So che in quella posizione la musica funziona bene. Infatti, due volte, a New York e a Firenze, la musica non stava funzionando e sono cascato per terra. Per fortuna, la gente ha pensato che fosse una specie di performance».
Lei ha digiunato per lo Ius Soli; è salito sull’Aquarius ferma a Marsiglia; ha firmato sul «Corriere» un appello per la scuola. L’impegno politico e sociale che pezzo di vita è?
«Fondamentale: mi sentirei in colpa se vedessi accadere certe cose e facessi finta di nulla. E più vai avanti, più hai bisogno di trovare motivazioni per vivere che non possono essere solo partire per un concerto. Sarebbe più facile non esprimermi, così sui social non scriverebbero “perché non suoni solo la tromba?”, ma non riesco. Sullo Ius Soli risposi: se non vi stanno bene le mie idee, non comprate i miei dischi e se li avete già comprati, vi ridò i soldi».
Qualcuno le ha chiesto i soldi indietro?
«Nessuno. Dietro alla tastiera, sono tutti bravi a criticare. Invece bisogna fare, e lavorare per le cose in cui si crede. Con mia moglie, per dire, ho creato “Nidi di note”, organizziamo eventi per finanziare laboratori musicali nelle scuole primarie e per l’infanzia».
Sua moglie è Sonia Peana, violinista, di Alghero. Poteva essere solo musicista e sarda?
«Non credo, ma nulla accade per caso, dietro c’è uno scrivere una partitura, segnare un percorso. L’ho incontrata nel 2000 a una messa jazz. È scattata la scintilla, ci siamo sposati, abbiamo avuto un bimbo che ora ha 13 anni. Non avevo in programma di mettere su famiglia, ma ho visto in lei la persona giusta».
Per il compleanno è uscito con un cofanetto di tre album, «P6OLO FR3SU», che include un libretto con le 60 parole importanti per lei. E ha registrato il concerto «Musica da lettura» per il suo canale Youtube, che ruota attorno alle stesse 60 parole. Quali le essenziali?
«Sono partito da Sardegna, Italia, Francia, le mie “nazioni”. L’ultima parola è: educazione. In mezzo, ci sono caparbietà, amore, fiducia, civiltà, umanità, vento, resilienza, accoglienza. È stato un modo per raccontare quello che vorrei essere a 60 anni».
Il suo festival
A Berchidda per Time in Jazz arrivano musicisti da tutto il mondo. L’estate scorsa abbiamo fatto 50 concerti senza un contagio, dimostrando che suonare è possibile
E cosa vorrebbe essere a 60 anni?
«Quello che sono, né più ne meno, senza rimpianti: uno che ha fatto cose molte belle e altre forse non necessarie. E che, a 60 anni, non guarda indietro, ma avanti».
(Fonte: Corriere della Sera)