C’è qualcosa che un algoritmo, forse, non può fare: respirare.
Eppure, nel continuo intervallo tra Zero e Uno…
Alla fine del 2017 è stato pubblicato da Bompiani Armi di distruzione matematica di Cathy O’Neil (traduzione di Daria Cavallini), un saggio che smaschera, in modo avvincente e analitico, quanto gli algoritmi siano non oggetti matematici oggettivi ma moltiplicatori di pregiudizi dei loro creatori. O’Neil, matematica che ha studiato a Berkeley, ha preso un dottorato a Harvard, è stata ricercatrice al Mit e ha poi lavorato in banche di investimento, dopo una onorata carriera in teoria e analisi dei dati, propone nel suo saggio un passaggio a modelli matematici più equi ed etici (è stata anche attivista di Occupy Wall Street).È dal liceo — nonostante possiamo averlo dimenticato per mancanza di conversazione — che l’etica e la scienza sono indissolubilmente legate dal punto di vista editoriale. Spinoza, infatti, decide di scrivere la sua etica, strutturando il ragionamento per assiomi, lemmi e teoremi, seguendo cioè il modello della geometria euclidea. Il titolo è Ethica more geometrico demonstrata , siamo negli anni Cinquanta del Seicento, e non c’è da stupirsi che, da lì in poi, l’argomento principale con cui l’editoria approccia la divulgazione della matematica e in particolare, oggi, degli algoritmi, è proprio l’etica. Pensiamo pure al capolavoro divulgativo di Wiener, Introduzione alla cibernetica. L’uso umano degli esseri umani (Bollati Boringhieri, nella traduzione di Dario Persiani del 1966 che andrebbe rifatta) dove già dal titolo si intuisce, si teme e si cerca di scongiurare attraverso lo studio della matematica una convivenza pacifica tra esseri umani e macchine. Fa eccezione in questo andamento il matematico e saggista Paolo Zellini (i cui libri sono pubblicati da Adelphi), il quale, nel suo recente Numeri degli Dei e algoritmi degli uomini (2016), parte dalla filosofa Simone Weil e scrive che definire il reale è ciò che importa. Il tema del suo libro è la realtà dei numeri. Realtà che viene analizzata e raccontata — c’è una ossessione della disciplina e di Zellini stesso riguardo l’infinito — prima per via geometrica, poi per via algebrica e infine per via computazionale, quando il principio di realtà dei numeri si sposta sugli algoritmi, e nel momento della grande esplosione degli algoritmi: l’avvento dei calcolatori. Se una cosa può essere computata da una macchina, allora esiste, per farla molto breve.
Dall’inizio di questo secondo anno del Coronacene sono stati pubblicati in Italia (almeno) tre libri sul rapporto tra algoritmi ed etica. Due lo indagano in modo biografico, teorico, il terzo in maniera pratica (se capisci come funziona una cosa, allora quella cosa fa parte della tua realtà, allora per quanto sia spaventosa ne hai meno paura). Il primo è Nel Paese degli algoritmi di Aurélie Jean, matematica di origine francese, ricercatrice al Mit (l’editore è Neri Pozza, la traduzione è di Elena dal Prà). Jean — il riferimento del titolo è Alice nel paese delle meraviglie — racconta come ha cominciato a studiare informatica e cosa ha imparato riguardo le possibilità che gli oggetti matematici chiamati algoritmi diventino strumento di oppressione, stesso tema di O’Neil, ma cinque anni dopo. Parte dal bias algoritmico (il pregiudizio nella strutturazione del procedimento del quale non ci avvediamo), e dopo averne descritto gli effetti catastrofici in ambiti medici, economici edecologici — quelli in cui ha lavorato — propone di conoscere il ciclo dei nostri pregiudizi che prima passano agli algoritmi e poi alle macchine che li implementano, propone di diventare sviluppatori responsabili o più comunemente fruitori responsabili (tema di Wiener). Il secondo è un libro di natura teorica nonostante gli accenni a episodi biografici. Si intitola Il prigioniero Libero (Adelphi). L’autore, Giuseppe Trautteur, è fisico e cibernetico all’Università di Napoli, e ha sempre lavorato anche in editoria come traduttore e curatore ( n.d.a è stato mio professore di Informatica teorica durante il dottorato, a un certo punto con la marziale educazione che lo caratterizzava mi ha giustamente rimandato a casa prima di essere costretto a bocciarmi al colloquio per il passaggio dal primo al secondo biennio, avevo studiato ma non avevo capito). Il libro di Trautteur è compless( issim)o, ma molto affascinante. Il tema è non se abbiamo il libero arbitrio, ma se il libero arbitrio esista. Se la nostra mente coincida col nostro cervello cioè con l’insieme di neuroni e sinapsi che soggiace, come tutta la materia, a leggi fisiche precise e provate; se viviamo in un mondo deterministico dove a uno stato dell’universo ne corrisponde sempre uno e uno solo successivo, e dunque se ha senso o no la parola responsabilità, e le scelte non siano tali ma conseguenze del precedente stato del cervello e dell’universo, e se è così, il parallelo con gli algoritmi e le macchine che lo implementano è immediato. Siamo robot che implementano stati successivi del nostro universo? Per parlare di scelta Trautteur deve definire il tempo, il determinismo, la prevedibilità e i modi della libertà, e lo fa. È un libro di natura filosofica e speculativa che getta in una qualche inquietudine, laddove il testo di Jean è invece permeato da un ottimismo tutto statunitense. Essendo europea, preferisco, nonostante l’oggettiva difficoltà, le ombre di Trautteur.E poi l’ultimo libro. Una piccola meraviglia, che tutti possono leggere, e che bisogna regalare. Si intitola Breve e universale storia degli algoritmi raccolta e narrata da Luigi Laura, l’ha pubblicata Luiss University Press ed è il libro, di tono divulgativo, più chiaro e allegro che io abbia letto sugli algoritmi. Ci sono definizioni, esercizi alla fine di ogni capitolo (e le soluzioni in fondo, come la settimana enigmistica), schede storiche, esempi chiari che riguardano gli algoritmi delle piattaforme sulle quali viviamo, da Facebook, a Google, a Netflix. C’è soprattutto l’idea che capire è possibile, e che gli strumenti, anche gli algoritmi (al netto dei bias di chi li progetta) sono neutri e sta a noi decidere se — avendo un prototipo di razzo — costruirci macchine che vadano nello spazio o macchine che rilascino bombe su altri popoli.
C’è l’idea che impareremo a scrivere codice alle elementari e non per diventare tutti programmatori ma, proprio come abbiamo imparato la scrittura e la matematica, per descrivere e comprendere la realtà. Luigi Laura insegna Machine Learning e analisi dei Big data alla Luiss ed è responsabile tecnico scientifico delle Olimpiadi italiane di Informatica, e pensare che vada con questa chiarezza nelle aule delle scuole secondarie a parlare e insegnare algoritmi puntella, ancora una volta, la sopravvivenza dell’eccellenza della scuola italiana.
(Fonte: La Repubblica)