La Lombardia è stata (ed è tuttora) gravemente colpita dall’emergenza pandemica.
Milano ha tuttavia una forza inedita e mille risorse.
Siamo certi che saprà riprendersi da par Suo, contribuendo al progressivo rilancio del nostro Paese.
Là dove gli ultimi sono in fila per il pane quotidiano, si svela in questi giorni la bellezza avveniristica del nuovo campus della Bocconi, aspirazione dei primi. Non vi è immagine più significativa della stridente e amara condizione di Milano ai tempi della pandemia. Marco Garzonio, nel suo ultimo libro La città che sale (prefazione di Giuliano Pisapia, Edizioni San Paolo), la descrive con l’occhio attento del cronista, la sapienza dell’intellettuale cattolico, la passione per la psicoanalisi.
Il rischio è che «gli stati d’animo indotti dalle disuguaglianze, dalle infelicità precedenti al lockdown, e dal virus incarogniti, si radichino e portino a una mentalità melancolica». Ovvero una depressione che veda i milanesi rinchiudersi nella loro dimensione individuale. E fuggire dalla comunità. Sprofondare nel privato. Abitare senza vivere. Accadde negli Anni di piombo quando uno sconosciuto biblista divenne arcivescovo di una metropoli ferita e seppe scuoterla, rianimarla. Esplosa Tangentopoli, Carlo Maria Martini paragonò Milano a Ninive, città mesopotamica tanto ricca quanto decadente, e la spronò a ritrovare il «senso dell’esistenza». Ricordiamo che allora, Irene Pivetti, da lì a poco presidente della Camera, voleva che l’arcivescovo venisse allontanato. Poi la città, forte della sua grande tradizione civica e solidale, polo d’attrazione di talenti e capitali, si affermò come un modello internazionale. Sospinta dal successo dell’Expo 2015, tornò ad essere un luogo ambito e di successo della contemporaneità. «A Milano anche i gelsi fanno l’uva» dice un antico proverbio che Garzonio ricorda per indicare la capacità creativa della città, il saper cambiare e trasformarsi. Sembrava vero. Tra Narciso ed Eros. E così la colse, impreparata e incredula, la pandemia.
Ora quel tempo, verso il quale si esercita un’irrefrenabile nostalgia, ci sembra lontanissimo. Il passato remoto è d’obbligo. Illusorio pensare che tutto tornerà come prima. Si è spezzata quella «propensione un po’ arrogante all’autosufficienza» della Milano indispettita dal dover trascinare in Europa il resto del Paese. Martini non c’è più. Rimane la sua eredità morale e culturale che fa da sfondo al lavoro di Garzonio. Fu proprio il cardinale a suggerire al presidente di Ambrosianeum di scrivere un «rapporto dei rapporti», ovvero una sintesi delle indagini annuali, sullo stato della metropoli, dell’istituzione meneghina. Il Covid — sostiene l’autore — ha spinto Milano, ancora una volta, nel ventre della balena, nelle tenebre in cui si può soccombere e perire ma dalle quali si può uscire rinnovati». Ed è il momento di darsi una meta ambiziosa e solidale, prendersi cura dell’altro, riscoprire l’importanza delle istituzioni e dei luoghi di cultura. Avere la responsabilità e l’orgoglio del riscatto civico. Come nel Dopoguerra.
Parole attuali
Martini aveva affidato
ai giovani il compito
di nutrire la «dimensione civile della vita»
Antonio Greppi, sindaco della Liberazione scrisse un libro dal titolo Risorgeva Milano. Garzonio nota l’uso dell’imperfetto, il tempo dei miti. E ricorda una frase di Agostino d’Ippona, immigrato, milanese d’adozione, battezzato da Ambrogio nel 387 nel battistero oggi sotto il sagrato del Duomo. «I tempi sono tre, il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro». Ma per risorgere — come ammoniva lo storico Giorgio Rumi — bisogna avere memoria. Perché «senza memoria vengono meno i fondamenti stessi della coscienza collettiva». La Ricostruzione è stata fatta di lavoro e cultura, di etica privata e pubblica. Accanto alle fabbriche e ai cantieri, rinasceva la Scala e si fondava il Piccolo; Rizzoli lanciava la Bur, Mondadori gli Oscar. «E a noi bambini delle elementari, denutriti e un po’ rachitici — scrive Garzonio — veniva somministrato l’olio di fegato di merluzzo». Le vaccinazioni erano obbligatorie. Nessuno protestava. Si ringraziava. Era la prova che eravamo diventati, a pieno titolo, cittadini della Repubblica.
Giuseppe Lazzati, deputato alla Costituente, rettore della Cattolica, scrisse Il fondamento di ogni ricostruzione nelle «baracche fredde e scure dei campi di concentramento germanici». Milano, dice Garzonio, ha assoluto bisogno di maestri come lui, di «persone la cui cattedra è la vita, il mestiere che fanno, gli affetti che provano». Solo così la città ritornerà ad essere quel «grande fontanile» che ne racchiude le qualità, le virtù e le speranze. I frati di Clairvaux, nel Medioevo, raggiunsero Mediolanum, individuarono le risorgive,«ne raccolsero il fluire, le trasformarono in fontanili, in nutrimento costante e copioso per i campi». Martini raccomandava ai giovani di «prendersi a cuore la dimensione civile della vita». Non poteva immaginare che la pandemia avrebbe sottratto loro la presenza in classe, la vita in comune, né che avrebbero occupato una scuola per chiedere di andarci.
L’arcivescovo riprese l’immagine biblica delle sentinelle del mattino — che si pongono in ascolto e in attesa — che un altro maestro, Giuseppe Dossetti, aveva usato proprio parlando a Milano. «Non si può edificare nulla se non si tiene lo sguardo alto, se non si pensa in grande». La città — come nel celebre dipinto di Boccioni, un altro immigrato — risalirà. Ne siamo certi. Come è sempre accaduto, sperando che faccia tesoro di errori, amnesie e arroganze. Non sempre i gelsi fanno l’uva.
(Fonte Corriere della Sera)